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Reportage

Viaggio alla fine del mondo

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Fra Cile e Argentina, doppiando Capo Horn
 
 
Lasciate le fredde giornate di gennaio in Italia, atterro a Buenos Aires. Estate piena, 32 gradi con un cielo terso e un sole nel suo massimo fulgore; le jacarandas violacee sono già quasi tutte sfiorite. Peccato, amo seguire le lunghe linee viola dei suoi viali, magari bevendo un pisco sour seduta sulla terrazza del bar panoramico di uno degli hotel. Conosco già la città, ma ogni volta che mi trovo a girare per le sue strade è una nuova magia: i colori accesi delle case del quartiere La Boca,la musica di tanghi melanconici che esce dalle numerose milongas e caffè delle trafficate vie del centro, la pace della Recoleta dominata dalla chiesa coloniale bianca e dal cimitero monumentale, ultima tappa e dimora delle contese spoglie di Evita Peron.
 
Ma Buenos Aires è molto di più, e ad ogni nuovo viaggio porta con sé un'altra scoperta: la libreria El Ateneo ricavata da un ex teatro ne è un esempio. I bellissimi palchi decorati sono stati trasformati in grandi balconate e ospitano i vari generi letterari; il palcoscenico, invece, è ora la caffetteria, con eleganti tavoli e poltrone per gustarsi un aperitivo o un caffè in compagnia di amici o di un buon libro. La scoperta più eclatante è però il teatro Colon, uno spettacolo nello spettacolo. Per la mia prossima permanenza a Buenos Aires so già cosa fare, assistere ad un'opera lirica qui; anche solo camminare tra i suoi foyers, nelle sale d'ingresso con colonne e statue di marmo di vari colori, nelle sale da fumo con specchi e lampadari, t'immerge nella sacralità e mito del teatro.
 
L'avventura però deve ancora cominciare. Quattro ore di volo su una terra sconfinata e sono alla "fin del mundo", la città di Ushuaia, che io definirei più la porta d'ingresso a questo mondo di meraviglie; qui erano terminati i miei precedenti viaggi in Patagonia e ora riprendo proprio da lì.
 
L'aria pungente della montagna mi dà già il benvenuto nel parco di Bahia la Pataia - Tierra del Fuego, dove i laghi circondati da montagne hanno il colore azzurro lattiginoso tipico dello scioglimento dei ghiacciai. Le verdi foreste di Nothofagus (falsi faggi) lasciano appena il passaggio ai sentieri, i rami sono coperti di licheni "barba di vecchio" e di funghi color arancio acceso chiamati volgarmente Pan del Indio: non mancano neppure le piccole bacche che vanno dal rosa, al rosso, al viola scuro del Calafate, il mirtillo patagonico: se ne mangi i frutti ti assicuri il ritorno in questi luoghi da sogno, ed io devo averne mangiati diversi, se già per tre volte sono stata in questi territori così remoti.
 
Dal molo di Ushuaia m'imbarco sulla nave Ventus Australis. L'ingresso in cabina è già un'emozione, comodini e cassetti della scrivania sono come vecchie valigie con accessori in pelle, gli interni vecchie mappe e lo specchio un vero e proprio oblò in legno, ma la cosa davvero impagabile è la finestra a tutta parete. Accosto il letto alla vetrata e subito penso che dormirò appoggiando l'almohada, il guanciale, sul davanzale così da poter osservare il passaggio di delfini e foche, farmi svegliare dal primo raggio di sole che si riflette sui ghiacciai, navigare distesa in cabina contando i piccoli iceberg che incontriamo. Sì,davvero, solo l'idea mi riempie l'animo.
 
Alle sette di sera il capitano invita alla presentazione dell'equipaggio e poi a cena: si lascia il porto e dalla sala ristorante vediamo le luci della città allontanarsi, a destra e a sinistra isole, lembi di terra che si allungano verso il centro del canale di Beagle, dominati spesso da fari bianchi e rossi. Mastico lentamente l'ottimo cibo non solo per assaporarne i sapori, ma perché distratta dal panorama, quasi volessi assaporare anche i colori, i paesaggi, le emozioni che tutto ciò mi provoca. Sono appena salpata, eppure vorrei già vivere attaccata a quell'oblò. Prima di ritirarmi in cabina mi affaccio casualmente all'esterno del terzo ponte, quello più tranquillo, dove solo pochi clienti e l'equipaggio si ritrovano per fumare: non è ancora notte fonda nonostante l'ora, ma il cielo è blu cobalto e la luna lo domina al centro lasciando intravedere entrambi i lati del canale. Mi soffermo incantata a pensare, domani già ci aspetta Capo Horn, quanti naviganti lo hanno temuto pur cercando di raggiungerlo.
 
Il primo degli sbarchi in gommone a Bahia Wulaia è semplice quasi di preparazione a ben più avventurose giornate. Con il salvagente ben in vista vengo indirizzata al gruppo degli italiani e scendo a terra o meglio sull'isola di Navarrino. Insieme alla nostra guida Cristian, un cagliaritano in Patagonia, iniziamo la nostra passeggiata nel bosco fino al punto panoramico: la salita è frammezzata dalle sue appassionate spiegazioni su natura, geologia e storia di questa terra nuova e misteriosa. Dall'alto si domina un ampio golfo ricco d'insenature, isolotti, montagne. Qui abitavano felicemente fino a inizio '900 gli Indios Yamanas, oggi purtroppo solo la ricostruzione di alcune loro abitazioni in legno misto a foglie e le poche foto scattate dal religioso geografo Alberto Maria De Agostini ce li ricordano. Delle loro tradizioni è rimasto poco e ancor meno della lingua: praticamente sono stati tutti uccisi da malattie a loro sconosciute, da mancanza di cibo e dal cambiamento forzato delle loro abitudini di vita.
 
Si rientra a bordo, qualche schizzo dal gommone, il tempo di togliersi l'abbigliamento impermeabile da barca ed è già ora di pranzo. La nave raggiungerà Capo Horn intorno alle 16,30 così decido di rilassarmi un po' in cabina, fisso il mare, le onde si increspano, il cielo si copre di nubi, temo non si possa attraccare. A volte succede, mi hanno detto, mi spiacerebbe non coronare questo mio sogno. "Ma chi non sogna non imparerà mai a volare", e non raggiungerà mai l'impossibile. Sotto il mio oblò iniziano a saltare un gruppo di delfini, la loro danza mi mette subito il buonumore, mi sembra che il cielo si faccia di nuovo limpido, le onde si calmino e di lì a poco arriva l'annuncio di prepararsi per lo sbarco. Avevo ragione a non disperare.
 
La discesa dal gommone ora è meno agevole, non c'è un vero e proprio molo, è l'equipaggio che tiene l'ormeggio e aiuta a salire sulla piattaforma alla base della scalinata che porta al faro. Mettere i piedi sull'isola di Cabo de Hornos mi emoziona; cerco di incamerare i ricordi, gli sguardi, la babele di voci dei mille e mille naviganti passati di lì. Me li porta il forte vento. A malapena riesco a stare in piedi, ma voglio e riesco ad arrivare al monumento all'albatros che domina la costa scoscesa. Raccolgo una pietra a ricordo di questa mia impresa, volgo di nuovo gli occhi verso il faro. Inizia a cadere una pioggerella fine e pungente, che mi sferza il volto, e percepisco di nuovo il mio corpo freddo, le membra bagnate. Inverto la marcia: una bambina con lunghi capelli viola, senza cappello, mi sorpassa correndo, incrocio i suoi occhi neri. Ma chi può lasciare una bambina così piccola girare da sola e senza neppure una giacca impermeabile, mi chiedo. La seguo, lei entra nel faro e si avvicina fiera ad un uomo in divisa. Ora mi è tutto chiaro, siamo a casa sua, come una nuova Alice nel paese delle meraviglie, o la Fata Turchina punk, mi sta presentando la sua stanza dei giochi, che per un anno sarà l'intera isola. Per 5 mesi all'anno, una volta a settimana, sbarcano strane persone che girano con un salvagente arancione a fare foto ovunque, ma non ascoltano il vento e neppure il mare. Mi mostra una pietra dipinta di bianco con una bandiera cilena: "Las he pintada yo!", l'ho dipinta io!. La compro, insieme al diploma di chi sbarca a Capo Horn firmato in diretta dal padre.
 
Li saluto, esco dal faro, ovvero la loro casa, ma il vento e la pioggia si sono fatti molto più violenti, barcollo. Trovo nuovamente riparo nell'unica altra costruzione dell'isola, una minuscola baracca in legno, senza finestre e con il tetto spiovente; sembra la casa della strega di Hansel e Gretel, invece è la chiesa.  L'interno è semplice e buio, ma ricco di immagini; metto a fuoco meglio, accanto a crocifissi e madonne in trono vedo anche un piccolo Buddha, rosari tibetani, piccole immagini induiste, un Corano e un candelabro a sette braccia. Il luogo stimola al raccoglimento e infonde una pace estrema. Il vento sembra essersi calmato, raccolgo un sasso da terra e mi avvicino alla spiaggia e al molo improvvisato per rientrare a bordo in gommone. 
 
Rientrati in nave ci aspetta pronto il nostro barman con una cioccolata calda con whisky e la mia cabina panoramica. In tarda mattinata e dopo una ricca colazione, ci prepariamo per il secondo emozionante sbarco di questa fantastica avventura in mare, il Glaciar Pia, o meglio, come qui in Cile vengono chiamati i ghiacciai, Ventisquero Pia.
 
Navigando nello stretto canale Beagle, abbiamo già avuto modo di vedere sia il Glaciar Holanda che il Glaciar Italia, molte vette innevate e piccole baie, ma niente si può paragonare a trovarsi davvero a pochi passi da questa impressionante parete di ghiaccio. Il gommone ci porta così vicino tanto da sentirne quasi il respiro. Ogni tanto si avvertono nel silenzio i tonfi sordi dei pezzi di ghiaccio che staccandosi dalla parete, cadono in acqua. Il brusio allegro delle voci che riempiva fino a pochi minuti fa i ponti, ora si è come spento, siamo tutti in ascolto di questo miracolo della natura.
 
Scesi a terra, mi unisco ad un piccolo gruppo che sale fino ad un punto panoramico percorrendo un agevole sentiero. Dall'alto si gode di una fantastica vista sul fiordo; le spaccature e le caverne formatesi nel ghiaccio lasciano trasparire un azzurro intenso, ben diverso dal grigio della parte esterna, il ghiacciaio nella sua parte terminale è simile a guglie di una chiesa gotica che a seconda di come riflette il sole acquistano sfumature di colori diversi.
 
Già inebriata da questa natura sublime e potente decido di fare almeno un'escursione trekking di difficoltà elevata fino alla cascata del fiordo Garibaldi. Su 160 passeggeri scendiamo solo in 25 con 4 guide. Il gruppo è eterogeneo: molti tedeschi, qualche francese, alcuni ispanici e io l'unica italiana. Come sempre scendiamo in gommone e dobbiamo fare lo slalom tra grossi cumuli di ghiaccio, trasparenti come cristalli di rocca, alcuni dalle sembianze di sculture. Siamo sbarcati su una piccola spiaggia di grossi sassi e conchiglie multicolori, circondata da una vegetazione fitta e incombente. Gli odori sono intensi, il suolo è completamente intriso d'acqua, coperto di un alto tappeto di foglie, di muschi e di erba patagonica. Gli alberi hanno tronchi contorti e nodosi, sono infestati da un particolare fungo rotondo, arancione e grande quanto una pallina da golf, il "pan del indio", così chiamato perchè un tempo era una tra le principali fonti di sostentamento per le popolazioni locali. Il percorso è estremamente accidentato, tronchi di grosse dimensioni sbarrano il sentiero, ci costringono a scavalcarli ma, grazie all'umidità, riusciamo bene a scivolarci sopra.
 
Arriviamo ad una specie di piccolo canyon, ma quando mi ci trovo a passare, mi accorgo che è un immenso tronco d'albero squartato e per metà coperto da fango rosso e compatto. La cascata è ormai vicina, si sente il fragore dell'acqua che scende sempre più forte. Oggi è il compleanno di una delle nostre guide, Rocio, e come prova di forza lo  festeggia con quello che viene chiamato il "bautismo patagonico" (battesimo patagonico), ossia immergergendo la testa nell'acqua fredda della cascata. Alzo lo sguardo verso il punto dal quale scende l'acqua, il getto si fa più intenso e schizzi lievissimi arrivano anche a me che mi ero tenuta lontana, come se la cascata volesse punirmi per non essermi fidata ad avvicinarmi e ora mi facesse un specie di doccia sensoriale, un battesimo patagonico delicato per chi come me ha un po' meno coraggio. Non sento freddo, scendo alla spiaggia ancora inebriata da tanta natura, il gommone ci aspetta. Stavolta ho davvero bisogno della cioccolata.
 
Punta Arenas è la nostra ultima tappa, dopo aver visitato la colonia di pinguini nell'isola Magdalena (una popolazione di ben 140.000 esemplari). Qui lasciamo definitivamente la nave e la nostra cabina che ci ha ospitati per cinque giorni.
 
È il momento di rientrare nella civiltà e lasciare i meravigliosi paesaggi di Cile e Argentina. Mi imbarco sul volo diretto a Roma via Buenos Aires: per un tempo che a me pare infinito sorvolo un deserto ocra, l'infinita Pampa Argentina, poi finalmente un estuario immenso, che è il Rio Negro, con isole, cumuli di sabbia di vari colori, dal bianco delle saline al rosato della salicornia, al giallo dorato del limo. Poi la linea azzurra del mare mi gira le spalle. Getto lo sguardo fuori dall'oblò dell'aereo: un cruciverba di appezzamenti si stende a perdita d'occhio, terreni coltivati a quadrati di dimensioni perfettamente uguali, alcuni di colore verde scuro, altri con contorni sempre ben delineati, ma di un giallo dorato di tonalità leggermente diversa. Già è fine gennaio, corrispondente al nostro luglio, è il periodo della mietitura del grano. Penso con malinconia all'estate che sto lasciando; tra poco a Roma tirerò fuori sciarpa, cappello e guanti, al mio rientro spero di trovare se non un ghiacciaio, almeno la neve.


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